Disturbo bipolare, demenza FT, teorie e farmaci

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 05 novembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/RECENSIONE]

 

La semeiotica psichiatrica di mezzo secolo fa concepiva una gamma continua di gradazioni nell’equilibrio umorale che caratterizza lo stato affettivo, dalle persone che avvertono poco e non manifestano affatto oscillazioni periodiche, presentando solo comprensibili variazioni in risposta a fatti quotidiani e vicende esistenziali, fino a quelle che, pur non facendo rilevare sintomi psicopatologici, vanno incontro a periodiche oscillazioni fra uno stato caratterizzato da energia euforica e intraprendenza, e uno stato contraddistinto da ipostenia sfiduciata e tendente al pessimismo. In un’epoca ancora precedente, gli appartenenti a questo estremo dello spettro fisiologico erano da vari psicopatologi e nosografisti identificati con i “ciclotimici”[1] di Ernst Kretschmer[2]. La psicosi maniaco-depressiva, in gran parte corrispondente al tipi I di disturbo bipolare di oggi, era cosa ben diversa: si situava al di là del solco che separava i sani di mente, pur sofferenti (nevrotici), dai matti (psicotici).

È interessante qualche cenno storico, perché la “storia maestra di vita” potrebbe in questo caso essere anche maestra di psichiatria. Infatti, come vedremo qui di seguito, ad un certo punto della diacronia degli studi si era presa la giusta via; ma proprio le intuizioni corrette sono state attaccate e bandite dalla cultura psichiatrica americana leader nel mondo, che cominciava allora quel cammino che l’ha portata fino alla recente clamorosa separazione dalla ricerca scientifica dell’NIMH sulle basi neurobiologiche dei disturbi mentali.

Gli accessi o crisi di malinconia e mania (eccitazione) sono noti e descritti fin dall’antichità, come fenomeni distinti ed indipendenti, e come tali vengono “medicalizzati”, giungendo  all’attenzione dei pionieri della psichiatria Pinel ed Esquirol. Ma le attente osservazioni di quest’ultimo, già nel 1816, rilevano un’alternanza: “Non è raro vedere la mania alternarsi in maniera regolare con l’etisia, l’ipocondria e la lipemania”[3].

Falret e Baillarger, indipendentemente, nel 1854 descrivono una malattia chiamata dal primo follia circolare, caratterizzata dalla regolare ripetizione dell’alternarsi di melanconia e mania separate da un intervallo lucido, e dal secondo follia a duplice forma, per l’alternarsi di depressione ed eccitazione. Fu lo studio del Ritti, datato 1883, che consacrò in Francia la nozione di una malattia unica, caratterizzata dalla successione nella stessa persona di crisi di mania e malinconia.

In Germania furono numerosi i medici che studiarono la malattia sotto il nome di “psicosi periodica”, ma il celebre nosografista Kraepelin, dopo minuziosi studi deduttivi condotti sui resoconti clinici, diede ordine a tutta la materia e, dopo aver dimostrato la ragionevolezza della tesi secondo cui le due forme alterne di turbamento psichico abbiano origine dallo stesso ordine di fenomeni, raccolse sotto l’unica definizione di follia maniaco-depressiva tutte le psicosi in precedenza denominate intermittenti, periodiche, alterne, a doppia forma o circolari.

Quel che è più interessante è che Kraepelin considerò la psicosi oscillante fra i due poli come una malattia essenzialmente endogena o costituzionale.

Ma vediamo cento anni dopo cosa si legge nel più quotato manuale francese di psichiatria, che cita il trattato americano considerato il testo più autorevole al mondo: “Gli psichiatri culturalisti americani escludono praticamente i fattori endogeni della psicosi maniaco-depressiva, e ammettono che la propensione agli accessi è prodotta da esperienze infantili e sarebbe causa della formazione di personalità pre-psicotiche e pre-maniaco-depressive (Arieti, American Handbook of Psychiatry, vol. I, p. 446)”[4].

Nello stesso manuale si riportano casi storicamente documentati di psicosi bipolare o maniaco-depressiva ad incidenza familiare e, in particolare, si illustra il caso di due gemelle monovulari nate nel 1893 e affette entrambe dalla psicosi, mediante una tabella grafica che consente di confrontare le loro crisi fino all’età di 52 anni. La negazione quasi ideologica della possibilità dell’influenza di fattori genetici è proseguita negli anni seguenti, anche quando si erano già costituiti numerosi gruppi di ricerca ed istituti per lo studio della genetica del disturbo bipolare.

Da allora i progressi compiuti, soprattutto nell’evoluzione concettuale relativa ai disturbi mentali di origine psicopatologica e alla medicalizzazione del disagio psichico e della sofferenza morale, sono notevoli; tuttavia, sia le conoscenze neurobiologiche delle basi dei disturbi mentali sia l’organizzazione del sapere psichiatrico in forme adatte ad efficaci interventi terapeutici e preventivi, sono ancora molto insoddisfacenti. Se da un canto è evidente che occorrerà sapere molto di più della neurobiologia dei disturbi mentali, dall’altro è altrettanto evidente che le categorie che fungono da riferimento alla stessa ricerca nel campo della psicopatologia molecolare, cellulare e dei sistemi, sono in gran parte da rivedere. Non è difficile rendersi conto che si sta attraversando un periodo di transizione, in cui risultano evidenti, ad esempio, gli errori del passato dovuti a costruzioni di categorie basate su poche evidenze ed eccessiva tendenza ad interpretare le manifestazioni cliniche e comportamentali secondo gli stereotipi sviluppati dalle grandi costruzioni teoriche che hanno dominato la cultura del “mentale”, invadendo filosofia e scienze umane nel Novecento. Temo, però, che siano meno evidenti gli errori del presente che, tante volte, sono anche più gravi.

La revisione settimanale delle pubblicazioni neuroscientifiche di interesse psichiatrico che faccio per conto della Società, mi ha posto sotto gli occhi un articolo che presenta un’associazione che non può non colpire chi abbia un po’ di esperienza clinica. È doveroso riferirne e suggerire la lettura del testo dell’articolo originale, ma ritengo sia altrettanto doveroso da parte mia prendere le distanze dalle frettolose e superficiali conclusioni che portano gli autori a basare un’associazione fra due entità nosografiche distinte e distanti su due soli casi clinici.

Papazacharias e colleghi affermano: “Il disturbo bipolare (BD, da bipolar disorder) potrebbe rappresentare uno stato prodromico della demenza frontotemporale (FTD, da fronto-temporal dementia)”.

(Papazacharias A., et al., Bipolar disorder and Frontotemporal Dementia: An Intriguing Association. Journal of Alzheimer’s Disease – Epub ahead of print Oct 11, 2016).

La provenienza degli autori è prevalentemente la seguente: Department of Basic Medical Science, Psychiatric Unit, Neuroscience and Sense Organs, Department of Clinical Research in Neurology, University of Bari “Aldo Moro”, Bari (Italia); Department of Research and Development, Chiesi Farmaceutici, Parma (Italia); Department of Medical Sciences, IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni Rotondo, Foggia (Italia).

In breve, gli autori riferiscono di due pazienti che hanno sofferto tutta la vita di BD e sono poi andati incontro ad un progressivo declino delle funzioni cognitive; per l’emergere di manifestazioni comportamentali e segni neurologici sono stati sottoposti ad osservazione diagnostica. Si è giunti ad una diagnosi di FTD prima dei 60 anni di età. In uno dei due casi era stata diagnosticata prima una forma di afasia primaria progressiva, nell’altro la FTD era associata a parkinsonismo.

Papazacharias e colleghi concludono che in tutti i pazienti con una lunga storia di BD, di fronte ad un declino cognitivo-comportamentale bisogna prendere in considerazione la possibilità di una demenza frontotemporale.

A parte considerazioni sulla genetica della FTD, in parte comune con la SLA (o ALS), per la quale rimandiamo alle trattazione nelle nostre note recenti, suggeriamo l’importanza dell’anamnesi relativa ai trattamenti farmacologici (tipo di farmaco e dose) protratti per tanti anni: una lunga, articolata e complessa discussione potrebbe avviarsi sul possibile contributo di alcuni psicofarmaci nel determinare l’espressione più precoce o la slatentizzazione di caratteri e processi connessi con la demenza.

A proposito di farmaci, si suggerisce la lettura dello studio di Fornaro dell’Istituto di Stato di Psichiatria di New York afferente alla Columbia University, con due colleghi italiani e uno brasiliano (Fornaro M., et al., Experimental drugs for bipolar psychosis. Expert Opinion Investig Drugs – Epub ahead of print Nov. 1, 2016). Gli autori fanno il punto della situazione a proposito della sperimentazione di nuovi farmaci per il trattamento dei disturbi bipolari, a fronte dell’inefficacia e dei rischi connessi con l’uso cronico dei farmaci attualmente più prescritti.

In conclusione, gli sviluppi teorici sulla neuropsicogenesi dei disturbi bipolari segnano il passo, probabilmente perché è da rivedere l’impostazione di fondo che considera la forma clinica comune dell’alternanza un elemento sufficiente per accomunare processi che possono avere anche origini differenti, come suggeriscono gli studi genetici.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-05 novembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] La categoria della ciclotimia è stata rispolverata dal DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association) per farne, però, una nuova diagnosi: il disturbo ciclotimico. La discutibilità dei criteri e l’indicazione di una terapia “specifica” su basi scarsamente verificate, hanno indotto molti psichiatri a sospettare che la categoria sia stata creata per ragioni che esulano dalla realtà psicopatologica.

[2] Ernst Kretschmer (1888-1964), docente di neurologia e psichiatria, si dimise dalla Società tedesca di psicoterapia in seguito all’espulsione dei membri ebrei. Tentò nel 1921 una sintesi fra costituzione somatica e psichica descrivendo tre tipi: 1) lo schizotimico, leptosomico, alto e introverso; 2) il ciclotimico, picnico, brevilineo e “sintonico”; 3) l’atletico con notevole sviluppo delle masse muscolari. Il primo tipo risultava frequente fra gli schizofrenici, mentre il secondo caratterizzava il 64% dei maniaco-depressivi (Mauz, 1930; Luxenburger 1939); infine, il terzo era parso frequente a Kretschmer fra gli epilettici.

[3] Cit. in Ey, Bernard, Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 301, Masson, Milano 1983.

[4] Cit. in Ey, Bernard, Brisset, op. cit., p. 302.